Coffee Time oggi grazie al Positive Technologies Research Team riporta i risultati della ricerca soprannominata “Cobalt – un nuovo trend o una vecchia conoscenza?”.
La ricerca ha svelato come questi attacchi informatici sono stati in grado di attaccare la banca e come potrebbero essere anche utilizzati contro altre istituzioni finanziarie. Alcuni criminali sono riusciti ad hackerare dei bancomat in Europa orientale rubando l’equivalente di 35.000 dollari. A seguito di un’approfondita indagine, Positive Technologies, produttore leader nella fornitura di soluzioni di sicurezza aziendale, gestione delle vulnerabilità, analisi delle minacce e protezione delle applicazioni, ha svelato come alcuni hacker sono stati in grado di rubare l’equivalente di 35.000 dollari da sei sportelli bancomat di una banca dell’Europa orientale.
Coffee Time riporta di seguito i risultati della ricerca.
1. Gli aggressori tendono a usare strumenti noti e funzionalità integrate nei sistemi operativi. I criminali hanno utilizzato un software commerciale – Cobalt Strike, con incluso Beacon – un Trojan multi-funzione di accesso remoto con ampie funzionalità per il controllo del sistema da remoto che consente l’upload e il download di file. Da qui è stato poi possibile hackerare la banca.
2. Le email di phishing sono ancora uno dei vettori di attacco di maggior successo, a causa della scarsa conoscenza che hanno i dipendenti sulla sicurezza. Il vettore di infezione dell’infrastruttura iniziale ha avuto origine dall’apertura di un file di archivio compresso RAR documents.exe. Il file di archivio è stato inviato a un dipendente e il documento in allegato conteneva il malware. Le email di phishing erano state inviate nei mesi precedenti a una serie di indirizzi e-mail della banca, con il messaggio che imitava dei messaggi di corrispondenza o di sicurezza finanziaria. Diversi dipendenti hanno aperto il file dannoso, ma uno dei dipendenti aveva l’antivirus disattivato e ciò ha permesso al malware di propagarsi.
3. Gli attacchi mirati sono sempre meglio organizzati e distribuiti. La ricerca ha rivelato che l’attacco è iniziato nei primi giorni di agosto 2016. Circa un mese dopo, gli hacker hanno avviato una serie di attacchi per rilevare quali stazioni di lavoro venissero utilizzate dai dipendenti responsabili al funzionamento dei bancomat e all’uso delle carte di pagamento. È stato solo ai primi di ottobre che gli aggressori hanno caricato i malware nei bancomat ed eseguito la rapina. Il malware installato sui distributori automatici è stato in grado di erogare denaro al comando dell’aggressore.
In seguito alla ricerca, Positive Technologies ha inviato alcuni dati utili alle autorità competenti, in modo che le informazioni potessero essere condivise con altre istituzioni finanziarie per prevenire futuri attacchi simili.
“Gli attacchi contro gli sportelli automatici sono spesso solo una fase iniziale, in seguito alla quale gli aggressori possono poi infiltrarsi nell’infrastruttura di rete di una banca”, spiega Alex Mathews, Lead Security Evangelist di Positive Technologies. “I rapinatori di banche moderni si sono resi conto che molte istituzioni finanziarie non investono adeguatamente in sicurezza e che spesso fanno solo il minimo indispensabile. Il risultato è che, partendo da una fase iniziale, gli aggressori si muovono poi lateralmente, scavano più in profondità nella rete ed entrano in altri sistemi all’interno dell’infrastruttura bancaria. Controllando il key server e i sistemi di gestione dei bancomat, questi criminali possono compiere furti di dati o di denaro. L’indagine di Positive Technologies ha rilevato che, per questa banca, il furto iniziale è stato facilitato da un messaggio di phishing ed è giunto a termine poiché i dipendenti sono stati raggirati nella distribuzione del malware. In questo modo la rete locale della banca è stata compromessa.”
A cura del Positive Technologies Research Team
Coffe Time oggi vuole approfondire il tema dei Big Data e, grazie a Luca Ferri, Head of Business Intelligence and Big Data di Sopra Steria, fare luce sulle opportunità derivanti dai Big Data, in crescita inarrestabile ormai da anni.
Il 2016 si è rivelato un anno cruciale, un anno che ha visto le organizzazioni sempre più impegnate a memorizzare, elaborare ed estrarre valore dai dati in tutte le forme e su qualsiasi infrastruttura. I dati presentati a fine novembre durante il Big Data Analytics & Business Intelligence, l’Osservatorio promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano e sponsorizzato da Sopra Steria, valutano il mercato degli Analytics nel 2016 in Italia in crescita del 15%, per un valore complessivo di 905 milioni di euro.
Se la Business Intelligence fa ancora la parte del leone in termini di volumi, con un valore di 722 milioni di euro (+9% in un anno), sono proprio i Big Data, seppur ancora marginali come valore (183 milioni di euro), ad affermarsi come la componente che sta affrontando la crescita più significativa (+44%). Secondo la definizione di Gartner, tre gli aspetti principali – le 3 V – caratterizzano i Big Data: il Volume elevato, l’alta Velocità e la Varietà del patrimonio informativo.
Appena tre anni fa, una ricerca di Sopra Steria aveva evidenziato come tutti e tre questi aspetti non fossero ritenuti dalle aziende europee una grande sfida: la scalabilità era un problema solo per l’8% delle aziende, la velocità per il 9% e la varietà addirittura era considerata una variabile interessante solo per il 4% degli intervistati. L’era dei Big Data doveva ancora arrivare. Oggi, al contrario, l’attenzione ai tre aspetti è costante nelle aziende, e, addirittura, è proprio la varietà a rivelarsi il fattore principale capace di guidare gli investimenti in Big Data.
La varietà è fondamentale perché i Big Data in azienda oggi non comprendono più solo dati strutturati, forniti in prevalenza dai database aziendali e dalle transazioni, ma soprattutto dati non strutturati come immagini, email, tweet, log file, audio, dati GPS, informazioni provenienti dalle interazioni sui social e streaming data, cioè dati ricevuti dai sensori e altri dispositivi collegati alla rete aziendale (IoT).
Oggi le imprese cercano di integrare più fonti e concentrarsi sulla “coda lunga” dei Big Data e per farlo, nel 2017, si affideranno a piattaforme di analisi valutate anche in base alla capacità di offrire una connettività diretta dal vivo a queste fonti disparate. Strutturare e analizzare in un tempo “utile” questa enorme quantità di “diverse” informazioni permette di migliorare l’esperienza del cliente, soprattutto perché i Big Data possono dimostrare di essere il modo corretto di misurare la customer experience e quindi la via migliore per ottimizzarla. L’obiettivo in questo senso è uno solo: portare sul mercato più rapidamente prodotti e servizi “giusti” grazie alla capacità di sfruttare tutti i canali per conoscere le preferenze e le esigenze dei propri clienti. In questo contesto, Sopra Steria investe costantemente in innovazione nel proprio Digilab per integrare gli aspetti emozionali dell’esperienza dei clienti in sistemi che permettano di accrescere la reputazione online e comprendere a fondo le interazioni con i clienti.
La certezza è che nel 2017 il mercato crescerà ancora insieme alla consapevolezza delle aziende delle opportunità che i Big Data offrono non solo per ottimizzare i processi, ma anche come leva innegabile per la crescita e la competitività. Dal punto di vista delle tecnologie, aumenteranno i sistemi che supportano grandi volumi di dati strutturati e non strutturati e la richiesta di piattaforme integrate che aiutino a governare e proteggere i Big Data consentendo agli utenti finali di analizzarli e generare valore a partire da essi. Nel corso dell’anno sono attesi nuovi sistemi per l’analisi dei dati che permetteranno di diminuire il tempo passato ad analizzare i dataset. Si tratta di uno scenario tecnologico in profonda trasformazione, dove l’evoluzione dell’open source e di Hadoop come ecosistema di gestione dei dati praticabile su larga scala ha creato un nuovo mercato del software, che sta trasformando profondamente il settore della BI e delle Analytics.
Tutto questo renderà sempre più urgente anche la ricerca di professionisti dei dati, capaci di districarsi non solo tra le tante tecnologie emergenti ma anche di comprendere l’orizzonte del business e rendere tutto questo enorme patrimonio informativo un vero valore per l’azienda. Queste professionalità risulteranno tra le figure più richieste nel mondo del lavoro nel 2017. Se lo scorso anno l’Osservatorio del Politecnico aveva dimostrato la necessita di affiancare alla capacita di estrarre insight dai dati la definizione di una strategia di business per il loro utilizzo, a distanza di un anno, la Ricerca ha rilevato importanti passi in avanti, che si concretizzano in una maggiore attenzione da parte del Top Management e in un investimento crescente nel mercato.
Ma in questo Coffee Time oltre ad analizzare lo stato dell’arte voglio parlare di consapevolezza e, da questo punto di vista, il processo di maturazione è ancora lungo. Se è vero infatti che in Italia il 39% dei CIO ritiene che la Business Intelligence, i Big Data e gli Analytics saranno una priorità di investimento nel 2017, solo l’8% di essi dichiara di aver raggiunto un buon livello di maturazione, e solo il 26% ha appena intrapreso questo lungo percorso.
In sintesi, ritengo che il 2017 potrà dimostrarsi l’anno della svolta nel mondo dei Big Data, segnando un passaggio fondamentale nella loro comprensione e adozione. Ritengo tuttavia che il percorso evolutivo che porta l’organizzazione a raggiungere la configurazione di “Data Driven Company” debba ancora prevedere una maturazione complessiva più lunga, che prenda in considerazione variabili sia di tipo tecnologico che organizzativo, per la necessità di integrare le competenze, definire i modelli di governo delle iniziative di Analytics e accrescere la conoscenza delle concrete opportunità che derivano dalle nuove tecnologie legate alla gestione dei Big Data.
A cura di Luca Ferri, Head of Business Intelligence and Big Data di Sopra Steria
Oggi il Coffee Time è in compagnia di Stefano Sordi, Direttore Marketing di Aruba, per analizzare l’evoluzione del Cloud in Italia.
Il mercato del Cloud Computing si è evoluto nel corso dell’ultimo anno e si sta sempre più conformando al tipo di aziende che serve, modificandosi a seconda del livello di maturazione dell’IT aziendale, dell’evoluzione di processi business-IT-business e della tipologia di achitetture legacy in uso presso le aziende.
Senza dubbio il cloud sta rappresentando una sfida sempre più importate per le aziende e i suoi CIO e CTO, costringendoli a ripensare processi e strategie che necessariamente dovranno tenere conto dell’esistenza di questa tecnologia ormai accessibile a tutti, competitor nuovi e futuri, vista l’ampia diffusione che sta avendo. Nel nostro paese chi aveva infrastrutture dedicate si sta preparando, attraverso roadmap di legacy transformation, a poter integrare in modo fluido processi flessibili e automatici alla base del cloud computing. Inoltre, si sta di fatto lavorando alla definizione della cosiddetta “cloud enabling infrastructure”, come qualcuno la definisce, ossia l’insieme dei processi e dei componenti che interessano l’ambito infrastrutturale, applicativo e d’interazione degli utenti aziendali con le piattaforme IT.
E’ ormai consolidata l’abitudine di non ricorrere più a soluzioni on premise, salvo in casi particolari, principalmente per non sobbarcarsi di eccessivi oneri di gestione dell’infrastruttura fisica, che con il cloud ricadono al 100% sul provider. Riguardo alla sicurezza, in generale all’inizio potevano esserci delle remore, ma quando le aziende hanno capito che i propri dati erano custoditi in data center ben definiti, almeno per ciò che concerne il modello Aruba, e gestiti da professionisti esperti in grado di occuparsi proattivamente e autonomamente della gestione dell’infrastruttura, hanno iniziato ad adottare il cloud sia pubblico sia privato senza questo retropensiero.
La liberazione dall’infrastruttura fisica rappresenta un passaggio epocale: invece di costruire la propria infrastruttura IT, il 40% delle aziende italiane sta puntando sul cloud computing in modo da sfruttare le risorse informatiche ospitate da terze parti. A renderlo noto è la relazione Eurostat sull’uso dei servizi cloud nelle aziende dei Paesi di tutta Europa, la stessa che pone l’Italia in cima alla classifica, seconda solo alla Finlandia.
Considerando che la media europea si attesta sul 19%, è facile rendersi conto di come l’Italia possa essere considerata all’avanguardia sull’argomento: nel corso dell’ultimo anno Aruba ha riscontrato una crescita notevole relativamente all’adozione del cloud da parte di piccole e medie imprese e l’elemento di novità è che, mentre in passato la tipologia di azienda che più di altre si orientava al cloud era la large enterprise, dalla seconda metà del 2013 le PMI hanno iniziato ad orientarsi al cloud in modo deciso. Tale dato ha una doppia lettura: da una parte è dovuto al fatto che Aruba ha acquisito più visibilità sul mercato, creando uno specifico focus sul tema cloud e cercando di sensibilizzare un pubblico sempre più vasto relativamente a questo prodotto (portando anche in televisione un servizio poco mainstream quale la tecnologia cloud). Dall’altra parte, il cloud ha subito una vera e propria evoluzione, diventando più appetibile anche per le PMI soprattutto in termini di costi. Aruba, ad esempio, ha proposto per questa fascia di mercato i server smart, soluzioni adatte soprattutto allo sviluppo, data la rapidità di creazione delle macchine. L’obiettivo è stato quello di venire incontro alle realtà dotate di risorse finanziare inferiori e offrire loro un prodotto di qualità che, svincolandosi dalla ridondanza offerta da cluster e storage, permettesse di abbattere i costi.
Ma in un mercato estremamente variegato quale quello italiano, la volontà di Aruba, come di ogni società attenta alle esigenze della propria utenza, è quella di strutturare offerte che si rivolgano a tutti i propri target di riferimento: la fascia di clientela più esigente, grande e strutturata, sta migrando sul cloud privato dove, a fronte di un impegno maggiore, si ha la possibilità di usufruire di un’estrema flessibilità. I principali vantaggi sono legati ad una personalizzazione elevata con profilazione di performance e possibilità di costruire infrastrutture realmente su misura, che quasi sempre fanno sì che una soluzione di cloud privato diventi una soluzione di cloud ibrido.
La fascia più dinamica e meno esigente, invece, va ad occupare la fascia di cloud pubblico, dove con diverse declinazioni dell’offerta si offre al cliente la possibilità di crescere e decrescere rapidamente con un impegno estremamente basso.
Di anno in anno cresce la consapevolezza delle aziende nei confronti di ciò che è il cloud e cosa rappresenta per il proprio business. Non si tratta di un traguardo da poco, come evidenziano i dati Sirmi dello scorso anno che lo vedono come un mercato che in Italia vale oltre 800 milioni: Il segreto è quello di avere un approccio esplorativo e innovativo che presuppone la segmentazione dell’IT perché diventi “accogliente” per questa tecnologia. Grazie ad un mirato progetto di internazionalizzazione, Aruba ha colto come l’approccio al cloud sia differente a seconda della nazionalità e come alcuni paesi mostrino un attaccamento alle soluzioni fisiche, molto più forte. Non si tratta di solo spirito patriottico ma in Italia, per fortuna, la propensione al cambiamento è maggiore del previsto.
Di Stefano Sordi, Direttore Marketing di Aruba
Domani ripartirà il consueto appuntamento di approfondimento con il Coffee Time che ospiterà un importante contributo, scritto da Stefano Sordi di Aruba, sul livello di adozione del cloud in Italia.
Aruba. dal 2011 ha ampliato la sua offerta di servizi con il Cloud e nel 2014 è diventata Registro ufficiale della prestigiosa estensione “cloud”.
Stefano Sordi parlerà dell’evoluzione del mercato del cloud computing nel corso dell’ultimo anno e di come l’offerta si stia sempre più conformando al tipo di aziende che serve, modificandosi a seconda del livello di maturazione dell’IT aziendale, dell’evoluzione di processi business-IT-business e della tipologia di achitetture legacy in uso presso le aziende.
Tutto ciò ha costretto aziende CIO e CTO a ripensare processi e strategie che necessariamente dovranno tenere conto dell’esistenza di questa tecnologia ormai accessibile a tutti, competitor nuovi e futuri, vista l’ampia diffusione che sta avendo.
Anche nel nostro paese sta avvenendo questa trasformazione e Stefano Sordi ci proporrà un’analisi dettagliata di questa evoluzione.
Coffee Time oggi parla di Henable.me cioè l’accessibilità a portata di tutti. È la prima piattaforma interattiva dedicata alla ricerca di soluzioni digitali da offrire a persone affette da diversi gradi di disabilità.
D’altronde Sir Timothy John Berners-Lee, coinventore con Robert Cailliau del World Wide Web affermava: “Il Web è più un’innovazione sociale che un’innovazione tecnica. L’ho progettato perché avesse una ricaduta sociale, perché aiutasse le persone a collaborare, e non come un giocattolo tecnologico”.
Henable.me è un chiaro esempio di come il mondo virtuale possa fornire un concreto aiuto per superare gli ostacoli che si frappongono quotidianamente tra un diversamente abile e il compimento di semplici azioni che caratterizza la quotidianità di tutti.
Ed è proprio questo il messaggio di cui si fa portavoce la piattaforma: il digitale è un ausilio utile tanto quanto un paio di occhiali, una sedia a rotelle o un bastone da passeggio. Uno strumento portatore di un enorme potenziale di possibilità.
La piattaforma digitale è stata prima nel suo genere. Interamente dedicata alla ricerca di soluzioni tecnologiche e digitali alle problematiche vissute dalle persone affette da disabilità, Henable.me si avvale del supporto di una serie di applicazioni: HenableZTL, HeSearch, Piattaforma Civica, Piattaforma Vita Indipendente.
I servizi offerti comprendono invece: Reinserimento Lavorativo, Verifica Accessibilità Presenze Online (Legge Stanca), Aggiornamento Siti in materia di Accessibilità e Formazione del personale.
Tutti pezzi che servono a costruire il percorso che conduca coloro i quali sono affetti da disabilità a raggiungere l’Accessibilità.
Henable.me offre la possibilità di attivare diverse sinergie: HenableZTL è per esempio l’app che consente a chi è disabile di effettuare la richiesta di accesso temporaneo a qualsiasi zona a traffico limitato in Italia, con un semplice click (disponibile sia per Android che per IOS).
C’è poi HeSearch: il primo motore di ricerca interamente sviluppato e pensato per rendere più semplice la navigazione e la ricerca.
La piattaforma Vita Indipendente è invece un collegamento fra domanda e offerta di servizi pensati e sviluppati per le persone affette da disabilità. Uno spazio in cui la socializzazione ha un ruolo determinante, nel quale le persone potranno condividere esperienze utili per risolvere problemi quotidiani.
Si tratta in sintesi di micro progetti che mirano a creare sinergie all’interno di una grande community legate da un filo conduttore: l’Accessibilità.
L’intento è quello di stimolare i cittadini affinché partecipino attivamente alla vita sociale di ognuno, apportando nuove idee, offrendo spunti di confronto, che portino feedback costruttivi sulle iniziative nel settore della disabilità.
I componenti del team?
Roberto Scano, Presidente ed esperto di accessibilità: Consulente inoltre per AgID e docente; Andrea Casadei, vicepresidente; Ferdinando Acerbi, amministratore e Ideatore del sistema: fondatore di H-enable s.r.l., confluita recentemente in Henable Coop. Soc. Onlus: esperto di accessibilità, formatore e Digital Champion dal 2015; Giulio Garofalo: sviluppatore developer in diversi ambienti di sviluppo.
Vogliamo abbattere tutte le barriere purtroppo invisibili ai più, presenti nella società, attraverso la partecipazione attiva di tutti i cittadini.
Creeremo un ponte tra mondo digitale e vita reale per rendere coloro i quali sono affetti da disabilità #digitalmenteabili!
Di Ferdinando Acerbi
Coffee Time oggi parla con Emanuela Zaccone di Social Media Monitoring, un processo necessario per costruire strategie Social efficaci
I Social Media hanno dato a tutti uno spazio in cui essere connessi, dialogare, interagire in modo trasparente con persone interessate ai nostri stessi temi e con i brand, che hanno trovato in questi canali un’occasione per costruire la propria reputazione in modo dinamico, stabilendo rapporti con gli utenti non basati esclusivamente sulla necessità di concludere una transazione ma mossi dall’obiettivo di creare in primo luogo una relazione volta a generare valore.
I Social Media dunque non sono canali su cui improvvisare, ma strumenti da ottimizzare con strategie i cui effetti devono essere misurabili.
Questo tipo di approccio è al centro del mio libro “Social Media Monitoring: dalle conversazioni alla strategia” che si propone proprio di offrire un metodo concreto di azione che porti a costruire attività efficaci a partire dall’analisi di quanto presente sui Social Media.
Durante SMAU Bologna ho approfondito questo tema in un workshop (di cui trovate le slides qui ), cercando di mettere un po’ di ordine sulla questione.
Innanzitutto: cosa si intende per “monitoring”? Non è semplicemente l’insieme delle azioni di analisi e raccolta dati delle proprie performance online, si tratta piuttosto di saper pianificare, ascoltare e agire strategicamente per costruire una solida reputazione online.
Il tutto partendo da un obiettivo chiaro: bisogna creare valore non solo per se stessi ma anche per gli utenti. E non solo attraverso i propri canali – controllabili, misurabili e gestibili – ma anche mediante l’ascolto di ciò che viene detto online del proprio band nei luoghi da noi non direttamente controllati. In altre parole, sarebbe riduttivo pensare che gli utenti parlano di noi solo quando commentano un post sulla nostra Facebook fan page o rispondono a un tweet, lo fanno anche sui propri blog, all’interno dei forum, sui propri account Twitter (senza menzionarci): ignorare questi “luoghi” significherebbe avere una visione parziale del modo in cui si viene percepiti.
Una valida attività di monitoring deve avere tre requisiti:
1) Tenere insieme analisi delle proprie performance, benchmark delle attività dei competitors e ascolto delle conversazioni degli utenti nei luoghi da noi non direttamente presidiati
2) Trasformare i dati analizzati in azioni concrete: non basta capire se una strategia ha funzionato o meno, bisogna scavare nei dati, capire cosa ha funzionato e cosa no ed agire di conseguenza. Subito. Non a consuntivo, quando il budget si è esaurito e l’inefficacia della strategia adottata si è trasformata in disastro.
3) Generare flussi virtuosi: il monitoring non è un’attività limitata nel tempo, deve accompagnare e guidare la gestione dei Social Media, supportando le decisioni e offrendo peraltro a chi lavora sui Social anche un appoggio concreto per motivare le proprie scelte strategiche nei confronti del cliente.
A supporto del monitoring è fondamentale utilizzare strumenti adatti. Le piattaforme disponibili si dividono due macro-categorie:
• Interne: messe a disposizione direttamente dalle piattaforme (es. Facebook Insights, Twitter Analytics, etc.)
• Esterne: utili ad esempio per tracciare le performance dei competitor (es. Quintly, SocialBakers, etc.), o raccogliere le conversazioni degli utenti intorno ad uns et di parole chiave (es. Talkwalker, Brandwatch, etc.)
Dimenticatevi però di trovare tutto in un’unica piattaforma: la verità è che il tool perfetto non esiste, esistono piuttosto obiettivi chiari e definiti. I vostri.
Un bravo Social Media Analyts, infatti, non si limita a copiare/incollare i dati su una presentazione o all’interno di un foglio di calcolo: li ricombina, li analizza alla luce degli obiettivi che ci si era fissati con specifiche azioni Social, li rende intellegibili.
Il Social Media Monitoring insomma è molto più che una semplice attività: è un’azione irrinunciabile per essere vincenti online.
Volete approfondire il tema? Parliamone insieme online
In questa pagina potete scaricare le prime 30 pagine del mio libro, un viaggio che parte dai dati e arriva alle strategie.
Di Emanuela Zaccone
Coffee Time oggi parla di PMI e cultura digitale: prima di pensare a risolvere i problemi, li devi scovare!
Ho parlato di questo tema durante il mio workshop il 5 giugno allo SMAU di Bologna. Un tema che di fatto porta in se tre grandi temi attuali e dir poco ‘pesanti’: cultura digitale, PMI e problemi. Partiamo allora dal primo grande tema: cos’è la cultura digitale? Perché parlare di cultura digitale?
Di cultura digitale ne parlo nel mio libro che si intitola ‘Cambia testa e potenzia la tua azienda con la cultura digitale’ .
In genere quando chiedo alle persone, ai responsabili di PMI cos’è per loro la cultura digitale ricevo due tipi di risposte: il rifiuto totale o l’accondiscendenza totale. Nel primo caso la mentalità ‘ho sempre fatto così, perché cambiare?’ ha la meglio, nel secondo l’atteggiamento è quasi un falso-positivo ‘facciamo tutto perché lo fanno tutti’.
Esiste però una terza reazione che nel mio piccolo cerco di provocare che è quella del partito dei miei ‘sciur Bianchi’ (il modo con cui anche nel libro parlo al piccolo imprenditore o professionista), ovvero coloro che si chiedono: perché? Perché abbracciare il cambiamento? Dove mi porterà?
Ecco allora che cultura digitale non è da intendersi come tecnologia, web o social network che, per carità, sono fondamentali, ma come un cammino, un percorso di cambiamento in costante divenire che porterà la tua azienda a migliorare e affrontare le nuove sfide che il futuro ci prospetta.
Per fare questo è necessario compiere degli step, dei veri e propri esercizi che ti porteranno a modificare il tuo approccio per poi influenzare quello dei tuoi collaboratori. Ecco allora che il primo step necessario è quello di scovare i reali problemi, quelli che stanno alla radice e che troppo spesso noi non vogliamo vedere. Il problema è che cala il fatturato? No, spesso questa è una drastica conseguenza di atteggiamenti anti-collaborativi e propositivi che magari tu nemmeno ti sogni di avere nella tua organizzazione.
«Niente è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che si ha sotto il naso». Johann Wolfgang Goethe
Nessuna frase fu più vera. Per convinzioni, abitudini, routine, istinto spesso siamo noi i primi artefici di questi danni, di questi problemi. Ma, attento: l’approccio corretto a questo tema deve essere propositivo e il perché ce lo spiega la definizione della parola ‘problema’ che per Treccani è: ‘
«Ogni quesito di cui si ritenga necessaria o si proponga la soluzione»
Non qualcosa di negativo, da non affrontare, ma un quesito che si vuole risolvere proponendo una soluzione per migliorare.
Come fare allora a scovare i tuoi problemi? Io ti propongo 7 step:
1) Dimentica le vecchie soluzioni che hanno avuto successo. Hanno avuto successo in passato, punto. Trova nuove strade
2) Umiltà nel voler cambiare per uscire dall’immobilismo. Se non cambi prima tu la testa, come puoi pretendere che lo facciano gli altri?
3) Chiediti: cosa potrei (ancora) peggiorare? Questo è un esercizio di stile e molto creativo. Ok, così le cose vanno male? E con il tuo immobilismo o con azioni sbagliate quanto ancora potrebbe peggiorare? E dove? Vedrai che per la legge del contrario sarai ispirato verso azioni da intraprendere
4) Immagina la tua PMI migliore: come sarebbe? Allo stesso modo immagina il meglio per te e adoperati perché passo dopo passo questo sogno si realizzi.
5) Coraggio di affrontare situazioni scomode. È inutile che ci giri intorno, che le eviti. Dovrai anche tu necessariamente affrontare situazioni che non ti piacciono, ma è tua responsabilità.
6) Scovare le situazioni di resistenza nella tua PMI (anche in te!). Smettila di resistere e cerca di capire tra i tuoi collaboratori come appianare conflitti e attriti.
7) Obiettivo chiaro. L’obiettivo deve essere chiaro e in focus: aumentare il fatturato non è un obiettivo chiaro se sai che i tuoi collaboratori non sono attivi e non partecipano alla vita aziendale, se non rispondono a telefonate o si sentono avviliti perché non gli ricordi mai quanto sono importanti…
Inizia a riflettere su questi punti e poi agisci. Come fare? Col primo esercizio che troverai sul mio libro e che ti aiuterà a evidenziare in modo semplice (e non banale) i punti critici che nella tua azienda ti stanno facendo fare acqua.
Prima però di iniziare questo percorso, ricorda che molto, tutto, dipenderà da te. Sei tu che devi cambiare testa e fare il salto di qualità:
«Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui vivi o assumersi la responsabilità di cambiarle». -Denis Waitley-
…e che la forza del cambiamento sia con te!
Se sei incuriosito da questi temi, ti invito a visitare il mio blog e a seguirmi sui principali social network.
QUI, se vorrai, potrai scaricare gratuitamente le prime 33 pagine del mio libro
Ti auguro uno splendido #futurosemplice !
Rosa Giuffrè
Consulente di Comunicazione e Blogger
Sempre più aziende si stanno affacciando all’ecommerce poiché è il momento giusto. Ciò porta ad una crescita naturale della competizione nazionale e il mercato online diventa sempre più saturo. E dunque: perché non vendere anche all’estero?
Un progetto di internazionalizzazione (seppur apparentemente limitato solo all’online) è spesso sottovalutato e i problemi sono molteplici.
Immaginate all’estero, dove cambiano abitudini, costumi, religioni, culture e tanti altri aspetti!
Il primo problema è rappresentato dalla lingua. I nostri potenziali clienti vogliono parlare la loro lingua madre quando chiamano al servizio clienti, vogliono consultare e leggere un sito web non in inglese. L’azienda deve pertanto strutturarsi con del personale competente, in grado di assistere i clienti anche in orari a noi “scomodi” (a causa del fuso orario, ad esempio).
Un secondo problema da affrontare è legato ai servizi/prodotti offerti e a come questi vengono percepiti o impiegati nella cultura di riferimento. L’olio extravergine d’oliva è un condimento alla base della nostra alimentazione.
All’estero non è così scontato…
In alcune nazioni cambia anche l’uso e la frequenza degli strumenti di comunicazione.
Se in Europa e in USA il motore di ricerca di riferimento è Google, in Russia troviamo Yandex, che è anche portale di informazione, pensato per i russi.
Anche i social network cambiano: Facebook è sostituito da Vkontakte, con logiche simili ma non identiche.
Di Daniele Rutigliano – Aproweb
Coffee Time oggi racconta con Tiziana La Iacona e Marco Vitali il progetto SIGEVI, SIstema di GEstione del comprensorio VIti-vinicolo,
I processi di crescita e sviluppo delle piante sono condizionati da fattori ambientali quali temperatura, radiazione solare, umidità e precipitazione. In quest’ambito, la temperatura figura come la variabile più rappresentativa in virtù del fatto che i vegetali sono organismi incapaci di mantenere quel parametro a livelli sostanzialmente diversi da quelli dell’ambiente in cui vivono. Pertanto, anche per la vite, le variazioni termiche influiscono su tutti i processi fisiologici che governano lo sviluppo fenologico e, appunto, fisiologico. L’andamento dell’annata e la gestione del vigneto determinano il risultato quanti-qualitativo della produzione, che orienta le strategie del viticoltore.
In questo quadro, la capacità di prevedere questo tipo di informazioni permette lo sviluppo di modelli capaci di orientare le decisioni grazie a una piattaforma che elabora le variazioni rispetto ad un modello atteso, informando gli operatori sulle possibilità di scelta utili al raggiungimento di un risultato atteso.
SIGEVI nasce quindi con lo scopo di sviluppare, testare e implementare uno strumento innovativo di supporto alle decisioni, o decision support system – DSS -, fondato sul principio delle wireless sensor networks e sulla loro integrazione con dispositivi mobili multitouch, come smartphone e tablet, che permettono la raccolta di dati in mobilità grazie allo sviluppo di una app per piattaforma Android e un portale web per l’accesso immediato ai dati.
Il sistema raccoglie i dati da sensori meteorologici e fisiologici sulla pianta, che vengono trasmessi via internet ad un centro di elaborazione, aperto alla consultazione degli operatori grazie allo sviluppo di interfacce user friendly e all’accessibilità da dispositivi mobili.
Attraverso i dispositivi mobili è anche possibile registrare tutte le osservazioni che vengono fatte da un tecnico sulle condizioni fito-patologiche Una suite che rende SIGEVI uno strumento di supporto all’attività quotidiana del viticoltore.
Grazie ai dati rilevati in campo dai sensori e dalla collaborazione dei partner professionali del progetto, il sistema informativo fornisce quindi supporto alle decisioni sullo stato idrico della pianta, sullo sviluppo della chioma, sulla diffusione delle malattie e informazioni sulla tempistica di raccolta e la produttività grazie al confronto con un database storico relativo al vitigno considerato.
I partner del progetto sono: DISAFA Università di Torino, CSP Innovazione nelle ICT, Terre da Vino S.p.A., Cantina sociale del Barbera Sei Castelli, Cantina sociale del Nebbiolo di Vezza d’Alba e Cantina Tre Secoli.
Progetto cofinanziato dall’Unione Europea mediante il fondo europeo agricolo di sviluppo rurale. Misura 124: “Cooperazione per lo sviluppo di nuovi prodotti, processi e tecnologie nei settori agricolo e alimentare e in quello forestale”. Azione 1: “Cooperazione per lo sviluppo di nuovi prodotti, processi e tecnologie nel settore agro- alimentare”.