Oggi il Coffee Time è in compagnia di Stefano Sordi, Direttore Marketing di Aruba, per analizzare l’evoluzione del Cloud in Italia.
Il mercato del Cloud Computing si è evoluto nel corso dell’ultimo anno e si sta sempre più conformando al tipo di aziende che serve, modificandosi a seconda del livello di maturazione dell’IT aziendale, dell’evoluzione di processi business-IT-business e della tipologia di achitetture legacy in uso presso le aziende.
Senza dubbio il cloud sta rappresentando una sfida sempre più importate per le aziende e i suoi CIO e CTO, costringendoli a ripensare processi e strategie che necessariamente dovranno tenere conto dell’esistenza di questa tecnologia ormai accessibile a tutti, competitor nuovi e futuri, vista l’ampia diffusione che sta avendo. Nel nostro paese chi aveva infrastrutture dedicate si sta preparando, attraverso roadmap di legacy transformation, a poter integrare in modo fluido processi flessibili e automatici alla base del cloud computing. Inoltre, si sta di fatto lavorando alla definizione della cosiddetta “cloud enabling infrastructure”, come qualcuno la definisce, ossia l’insieme dei processi e dei componenti che interessano l’ambito infrastrutturale, applicativo e d’interazione degli utenti aziendali con le piattaforme IT.
E’ ormai consolidata l’abitudine di non ricorrere più a soluzioni on premise, salvo in casi particolari, principalmente per non sobbarcarsi di eccessivi oneri di gestione dell’infrastruttura fisica, che con il cloud ricadono al 100% sul provider. Riguardo alla sicurezza, in generale all’inizio potevano esserci delle remore, ma quando le aziende hanno capito che i propri dati erano custoditi in data center ben definiti, almeno per ciò che concerne il modello Aruba, e gestiti da professionisti esperti in grado di occuparsi proattivamente e autonomamente della gestione dell’infrastruttura, hanno iniziato ad adottare il cloud sia pubblico sia privato senza questo retropensiero.
La liberazione dall’infrastruttura fisica rappresenta un passaggio epocale: invece di costruire la propria infrastruttura IT, il 40% delle aziende italiane sta puntando sul cloud computing in modo da sfruttare le risorse informatiche ospitate da terze parti. A renderlo noto è la relazione Eurostat sull’uso dei servizi cloud nelle aziende dei Paesi di tutta Europa, la stessa che pone l’Italia in cima alla classifica, seconda solo alla Finlandia.
Considerando che la media europea si attesta sul 19%, è facile rendersi conto di come l’Italia possa essere considerata all’avanguardia sull’argomento: nel corso dell’ultimo anno Aruba ha riscontrato una crescita notevole relativamente all’adozione del cloud da parte di piccole e medie imprese e l’elemento di novità è che, mentre in passato la tipologia di azienda che più di altre si orientava al cloud era la large enterprise, dalla seconda metà del 2013 le PMI hanno iniziato ad orientarsi al cloud in modo deciso. Tale dato ha una doppia lettura: da una parte è dovuto al fatto che Aruba ha acquisito più visibilità sul mercato, creando uno specifico focus sul tema cloud e cercando di sensibilizzare un pubblico sempre più vasto relativamente a questo prodotto (portando anche in televisione un servizio poco mainstream quale la tecnologia cloud). Dall’altra parte, il cloud ha subito una vera e propria evoluzione, diventando più appetibile anche per le PMI soprattutto in termini di costi. Aruba, ad esempio, ha proposto per questa fascia di mercato i server smart, soluzioni adatte soprattutto allo sviluppo, data la rapidità di creazione delle macchine. L’obiettivo è stato quello di venire incontro alle realtà dotate di risorse finanziare inferiori e offrire loro un prodotto di qualità che, svincolandosi dalla ridondanza offerta da cluster e storage, permettesse di abbattere i costi.
Ma in un mercato estremamente variegato quale quello italiano, la volontà di Aruba, come di ogni società attenta alle esigenze della propria utenza, è quella di strutturare offerte che si rivolgano a tutti i propri target di riferimento: la fascia di clientela più esigente, grande e strutturata, sta migrando sul cloud privato dove, a fronte di un impegno maggiore, si ha la possibilità di usufruire di un’estrema flessibilità. I principali vantaggi sono legati ad una personalizzazione elevata con profilazione di performance e possibilità di costruire infrastrutture realmente su misura, che quasi sempre fanno sì che una soluzione di cloud privato diventi una soluzione di cloud ibrido.
La fascia più dinamica e meno esigente, invece, va ad occupare la fascia di cloud pubblico, dove con diverse declinazioni dell’offerta si offre al cliente la possibilità di crescere e decrescere rapidamente con un impegno estremamente basso.
Di anno in anno cresce la consapevolezza delle aziende nei confronti di ciò che è il cloud e cosa rappresenta per il proprio business. Non si tratta di un traguardo da poco, come evidenziano i dati Sirmi dello scorso anno che lo vedono come un mercato che in Italia vale oltre 800 milioni: Il segreto è quello di avere un approccio esplorativo e innovativo che presuppone la segmentazione dell’IT perché diventi “accogliente” per questa tecnologia. Grazie ad un mirato progetto di internazionalizzazione, Aruba ha colto come l’approccio al cloud sia differente a seconda della nazionalità e come alcuni paesi mostrino un attaccamento alle soluzioni fisiche, molto più forte. Non si tratta di solo spirito patriottico ma in Italia, per fortuna, la propensione al cambiamento è maggiore del previsto.
Di Stefano Sordi, Direttore Marketing di Aruba
Domani ripartirà il consueto appuntamento di approfondimento con il Coffee Time che ospiterà un importante contributo, scritto da Stefano Sordi di Aruba, sul livello di adozione del cloud in Italia.
Aruba. dal 2011 ha ampliato la sua offerta di servizi con il Cloud e nel 2014 è diventata Registro ufficiale della prestigiosa estensione “cloud”.
Stefano Sordi parlerà dell’evoluzione del mercato del cloud computing nel corso dell’ultimo anno e di come l’offerta si stia sempre più conformando al tipo di aziende che serve, modificandosi a seconda del livello di maturazione dell’IT aziendale, dell’evoluzione di processi business-IT-business e della tipologia di achitetture legacy in uso presso le aziende.
Tutto ciò ha costretto aziende CIO e CTO a ripensare processi e strategie che necessariamente dovranno tenere conto dell’esistenza di questa tecnologia ormai accessibile a tutti, competitor nuovi e futuri, vista l’ampia diffusione che sta avendo.
Anche nel nostro paese sta avvenendo questa trasformazione e Stefano Sordi ci proporrà un’analisi dettagliata di questa evoluzione.
Coffee Time oggi parla di Henable.me cioè l’accessibilità a portata di tutti. È la prima piattaforma interattiva dedicata alla ricerca di soluzioni digitali da offrire a persone affette da diversi gradi di disabilità.
D’altronde Sir Timothy John Berners-Lee, coinventore con Robert Cailliau del World Wide Web affermava: “Il Web è più un’innovazione sociale che un’innovazione tecnica. L’ho progettato perché avesse una ricaduta sociale, perché aiutasse le persone a collaborare, e non come un giocattolo tecnologico”.
Henable.me è un chiaro esempio di come il mondo virtuale possa fornire un concreto aiuto per superare gli ostacoli che si frappongono quotidianamente tra un diversamente abile e il compimento di semplici azioni che caratterizza la quotidianità di tutti.
Ed è proprio questo il messaggio di cui si fa portavoce la piattaforma: il digitale è un ausilio utile tanto quanto un paio di occhiali, una sedia a rotelle o un bastone da passeggio. Uno strumento portatore di un enorme potenziale di possibilità.
La piattaforma digitale è stata prima nel suo genere. Interamente dedicata alla ricerca di soluzioni tecnologiche e digitali alle problematiche vissute dalle persone affette da disabilità, Henable.me si avvale del supporto di una serie di applicazioni: HenableZTL, HeSearch, Piattaforma Civica, Piattaforma Vita Indipendente.
I servizi offerti comprendono invece: Reinserimento Lavorativo, Verifica Accessibilità Presenze Online (Legge Stanca), Aggiornamento Siti in materia di Accessibilità e Formazione del personale.
Tutti pezzi che servono a costruire il percorso che conduca coloro i quali sono affetti da disabilità a raggiungere l’Accessibilità.
Henable.me offre la possibilità di attivare diverse sinergie: HenableZTL è per esempio l’app che consente a chi è disabile di effettuare la richiesta di accesso temporaneo a qualsiasi zona a traffico limitato in Italia, con un semplice click (disponibile sia per Android che per IOS).
C’è poi HeSearch: il primo motore di ricerca interamente sviluppato e pensato per rendere più semplice la navigazione e la ricerca.
La piattaforma Vita Indipendente è invece un collegamento fra domanda e offerta di servizi pensati e sviluppati per le persone affette da disabilità. Uno spazio in cui la socializzazione ha un ruolo determinante, nel quale le persone potranno condividere esperienze utili per risolvere problemi quotidiani.
Si tratta in sintesi di micro progetti che mirano a creare sinergie all’interno di una grande community legate da un filo conduttore: l’Accessibilità.
L’intento è quello di stimolare i cittadini affinché partecipino attivamente alla vita sociale di ognuno, apportando nuove idee, offrendo spunti di confronto, che portino feedback costruttivi sulle iniziative nel settore della disabilità.
I componenti del team?
Roberto Scano, Presidente ed esperto di accessibilità: Consulente inoltre per AgID e docente; Andrea Casadei, vicepresidente; Ferdinando Acerbi, amministratore e Ideatore del sistema: fondatore di H-enable s.r.l., confluita recentemente in Henable Coop. Soc. Onlus: esperto di accessibilità, formatore e Digital Champion dal 2015; Giulio Garofalo: sviluppatore developer in diversi ambienti di sviluppo.
Vogliamo abbattere tutte le barriere purtroppo invisibili ai più, presenti nella società, attraverso la partecipazione attiva di tutti i cittadini.
Creeremo un ponte tra mondo digitale e vita reale per rendere coloro i quali sono affetti da disabilità #digitalmenteabili!
Di Ferdinando Acerbi
Domani Coffee Time ospiterà Ferdinando Acerbi, fondatore di H-enable s.r.l., confluita recentemente in Henable Coop. Soc. Onlus, esperto di accessibilità, formatore e Digital Champion dal 2015
Il suo editoriale sarà dedicato al tema dell’abbattimento di tutte le barriere purtroppo invisibili ai più, presenti nella società, attraverso la partecipazione attiva di tutti i cittadini.
Per raggiungere questo obiettivo e creare sinergie Ferdinando Acerbi ha creato la piattaforma “Henable.me”, dedicata alla ricerca di soluzioni digitali da offrire a persone affette da diversi gradi di disabilità.
Coffee Time oggi parla del progetto europeo NADINE in grado di creare algoritmi e metodi per analizzare le attività online al fine di individuare le relazioni tra soggetti, paesi e persino beni di scambio
Internet è attualmente formato da oltre 50 miliardi di pagine collegate tra loro in modo tale da formare un vasto paesaggio virtuale. Ogni interazione fornisce dati che, quando vengono scomposti e analizzati, permettono di osservare e capire un’ampia gamma di attività umane, da quelle culturali a quelle economiche. Per questo motivo è stato attivato, nell’ambito dello schema “Tecnologie Future ed Emergenti” dell’UE, il progetto NADINE New tools and Algorithms for DIrected NEtwork analysis) che contribuisce allo sviluppo di nuovi tipi di motori di ricerca, ponendo l’Europa al vertice in questo importante settore.
“Stiamo cercando di mappare la rete per mostrare come le pagine sono collegate tra loro e come le persone usano questi collegamenti nei loro viaggi attraverso la rete,” ha affermato il coordinatore del progetto NADINE, Dima Shepelyansky, direttore della ricerca presso il Laboratoire de Physique Théorique, CNRS Toulouse. Il progetto usa vari strumenti, alcuni dei quali forniti da Google, per mostrare quante pagine sono collegate tra di loro. In questo modo si possono determinare, per esempio, le probabilità che siano visitati determinati siti, che siano effettuate certe scelte, che si acquistino oggetti o si voti in un certo modo.
Per sviluppare e testare le loro metodologie, i ricercatori hanno osservato gli articoli biografici di Wikipedia, valutando la possibilità di catalogare le persone consultate in ordine di influenza. Essi hanno analizzato i contributi redatti in 24 lingue principali, considerando il numero di articoli che rimandano a singoli individui secondo il sistema PageRank di Google, che ritiene una pagina “importante” se ad essa rimandano altre pagine importanti.
Questo processo ha fatto emergere un caso curioso ed interessante: il personaggio più referenziato risultava essere lo scienziato Carl Nilsson Linnaeus (noto agli italiani come Linneo), un medico, botanico e naturalista svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi. Proprio per questa sua opera scientifica sono stati stabiliti numerosi collegamenti indirizzati verso la sua pagina e provenienti da ogni pagina di Wikipedia dedicata a piante e animali (e questo riscontro ha alterato i risultati). I ricercatori hanno quindi deciso di introdurre il CheiRank, che calcola l’importanza di una pagina in base al numero di collegamenti in uscita. Integrando i due sistemi citati, i ricercatori hanno definito un modo scientifico accettabile per misurare l’importanza di una pagina. I metodi sviluppati possono anche rilevare le comunità web auto-organizzate e collegate.
Esaminando le modalità con le quali i collegamenti (verso e da una pagina) possono mostrare come vengono scambiate le informazioni, il progetto ha applicato i nuovi risultati all’analisi dei flussi commerciali. Dima Shepelyansky ha spiegato che “NADINE ha usato la banca dati del commercio mondiale delle Nazioni Unite, che contiene i dati degli ultimi 50 anni. Abbiamo sviluppato un nuovo modo di analizzare lo scambio commerciale di 61 prodotti tra i paesi dell’ONU, determinando la sensibilità dell’equilibrio commerciale alle variazioni di prezzo”.
NADINE è un’iniziativa che riunisce in partnership un gruppo di fisici teorici, matematici e informatici di Francia, Italia, Paesi Bassi e Ungheria, quindi il finanziamento transnazionale dell’UE è stato indispensabile per costituire un’equipe di scienziati provenienti da discipline e paesi così diverse.
Di Redazione ViralCaffè
Coffee Time oggi parla con Emanuela Zaccone di Social Media Monitoring, un processo necessario per costruire strategie Social efficaci
I Social Media hanno dato a tutti uno spazio in cui essere connessi, dialogare, interagire in modo trasparente con persone interessate ai nostri stessi temi e con i brand, che hanno trovato in questi canali un’occasione per costruire la propria reputazione in modo dinamico, stabilendo rapporti con gli utenti non basati esclusivamente sulla necessità di concludere una transazione ma mossi dall’obiettivo di creare in primo luogo una relazione volta a generare valore.
I Social Media dunque non sono canali su cui improvvisare, ma strumenti da ottimizzare con strategie i cui effetti devono essere misurabili.
Questo tipo di approccio è al centro del mio libro “Social Media Monitoring: dalle conversazioni alla strategia” che si propone proprio di offrire un metodo concreto di azione che porti a costruire attività efficaci a partire dall’analisi di quanto presente sui Social Media.
Durante SMAU Bologna ho approfondito questo tema in un workshop (di cui trovate le slides qui ), cercando di mettere un po’ di ordine sulla questione.
Innanzitutto: cosa si intende per “monitoring”? Non è semplicemente l’insieme delle azioni di analisi e raccolta dati delle proprie performance online, si tratta piuttosto di saper pianificare, ascoltare e agire strategicamente per costruire una solida reputazione online.
Il tutto partendo da un obiettivo chiaro: bisogna creare valore non solo per se stessi ma anche per gli utenti. E non solo attraverso i propri canali – controllabili, misurabili e gestibili – ma anche mediante l’ascolto di ciò che viene detto online del proprio band nei luoghi da noi non direttamente controllati. In altre parole, sarebbe riduttivo pensare che gli utenti parlano di noi solo quando commentano un post sulla nostra Facebook fan page o rispondono a un tweet, lo fanno anche sui propri blog, all’interno dei forum, sui propri account Twitter (senza menzionarci): ignorare questi “luoghi” significherebbe avere una visione parziale del modo in cui si viene percepiti.
Una valida attività di monitoring deve avere tre requisiti:
1) Tenere insieme analisi delle proprie performance, benchmark delle attività dei competitors e ascolto delle conversazioni degli utenti nei luoghi da noi non direttamente presidiati
2) Trasformare i dati analizzati in azioni concrete: non basta capire se una strategia ha funzionato o meno, bisogna scavare nei dati, capire cosa ha funzionato e cosa no ed agire di conseguenza. Subito. Non a consuntivo, quando il budget si è esaurito e l’inefficacia della strategia adottata si è trasformata in disastro.
3) Generare flussi virtuosi: il monitoring non è un’attività limitata nel tempo, deve accompagnare e guidare la gestione dei Social Media, supportando le decisioni e offrendo peraltro a chi lavora sui Social anche un appoggio concreto per motivare le proprie scelte strategiche nei confronti del cliente.
A supporto del monitoring è fondamentale utilizzare strumenti adatti. Le piattaforme disponibili si dividono due macro-categorie:
• Interne: messe a disposizione direttamente dalle piattaforme (es. Facebook Insights, Twitter Analytics, etc.)
• Esterne: utili ad esempio per tracciare le performance dei competitor (es. Quintly, SocialBakers, etc.), o raccogliere le conversazioni degli utenti intorno ad uns et di parole chiave (es. Talkwalker, Brandwatch, etc.)
Dimenticatevi però di trovare tutto in un’unica piattaforma: la verità è che il tool perfetto non esiste, esistono piuttosto obiettivi chiari e definiti. I vostri.
Un bravo Social Media Analyts, infatti, non si limita a copiare/incollare i dati su una presentazione o all’interno di un foglio di calcolo: li ricombina, li analizza alla luce degli obiettivi che ci si era fissati con specifiche azioni Social, li rende intellegibili.
Il Social Media Monitoring insomma è molto più che una semplice attività: è un’azione irrinunciabile per essere vincenti online.
Volete approfondire il tema? Parliamone insieme online
In questa pagina potete scaricare le prime 30 pagine del mio libro, un viaggio che parte dai dati e arriva alle strategie.
Di Emanuela Zaccone
Coffee Time oggi parla di PMI e cultura digitale: prima di pensare a risolvere i problemi, li devi scovare!
Ho parlato di questo tema durante il mio workshop il 5 giugno allo SMAU di Bologna. Un tema che di fatto porta in se tre grandi temi attuali e dir poco ‘pesanti’: cultura digitale, PMI e problemi. Partiamo allora dal primo grande tema: cos’è la cultura digitale? Perché parlare di cultura digitale?
Di cultura digitale ne parlo nel mio libro che si intitola ‘Cambia testa e potenzia la tua azienda con la cultura digitale’ .
In genere quando chiedo alle persone, ai responsabili di PMI cos’è per loro la cultura digitale ricevo due tipi di risposte: il rifiuto totale o l’accondiscendenza totale. Nel primo caso la mentalità ‘ho sempre fatto così, perché cambiare?’ ha la meglio, nel secondo l’atteggiamento è quasi un falso-positivo ‘facciamo tutto perché lo fanno tutti’.
Esiste però una terza reazione che nel mio piccolo cerco di provocare che è quella del partito dei miei ‘sciur Bianchi’ (il modo con cui anche nel libro parlo al piccolo imprenditore o professionista), ovvero coloro che si chiedono: perché? Perché abbracciare il cambiamento? Dove mi porterà?
Ecco allora che cultura digitale non è da intendersi come tecnologia, web o social network che, per carità, sono fondamentali, ma come un cammino, un percorso di cambiamento in costante divenire che porterà la tua azienda a migliorare e affrontare le nuove sfide che il futuro ci prospetta.
Per fare questo è necessario compiere degli step, dei veri e propri esercizi che ti porteranno a modificare il tuo approccio per poi influenzare quello dei tuoi collaboratori. Ecco allora che il primo step necessario è quello di scovare i reali problemi, quelli che stanno alla radice e che troppo spesso noi non vogliamo vedere. Il problema è che cala il fatturato? No, spesso questa è una drastica conseguenza di atteggiamenti anti-collaborativi e propositivi che magari tu nemmeno ti sogni di avere nella tua organizzazione.
«Niente è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che si ha sotto il naso». Johann Wolfgang Goethe
Nessuna frase fu più vera. Per convinzioni, abitudini, routine, istinto spesso siamo noi i primi artefici di questi danni, di questi problemi. Ma, attento: l’approccio corretto a questo tema deve essere propositivo e il perché ce lo spiega la definizione della parola ‘problema’ che per Treccani è: ‘
«Ogni quesito di cui si ritenga necessaria o si proponga la soluzione»
Non qualcosa di negativo, da non affrontare, ma un quesito che si vuole risolvere proponendo una soluzione per migliorare.
Come fare allora a scovare i tuoi problemi? Io ti propongo 7 step:
1) Dimentica le vecchie soluzioni che hanno avuto successo. Hanno avuto successo in passato, punto. Trova nuove strade
2) Umiltà nel voler cambiare per uscire dall’immobilismo. Se non cambi prima tu la testa, come puoi pretendere che lo facciano gli altri?
3) Chiediti: cosa potrei (ancora) peggiorare? Questo è un esercizio di stile e molto creativo. Ok, così le cose vanno male? E con il tuo immobilismo o con azioni sbagliate quanto ancora potrebbe peggiorare? E dove? Vedrai che per la legge del contrario sarai ispirato verso azioni da intraprendere
4) Immagina la tua PMI migliore: come sarebbe? Allo stesso modo immagina il meglio per te e adoperati perché passo dopo passo questo sogno si realizzi.
5) Coraggio di affrontare situazioni scomode. È inutile che ci giri intorno, che le eviti. Dovrai anche tu necessariamente affrontare situazioni che non ti piacciono, ma è tua responsabilità.
6) Scovare le situazioni di resistenza nella tua PMI (anche in te!). Smettila di resistere e cerca di capire tra i tuoi collaboratori come appianare conflitti e attriti.
7) Obiettivo chiaro. L’obiettivo deve essere chiaro e in focus: aumentare il fatturato non è un obiettivo chiaro se sai che i tuoi collaboratori non sono attivi e non partecipano alla vita aziendale, se non rispondono a telefonate o si sentono avviliti perché non gli ricordi mai quanto sono importanti…
Inizia a riflettere su questi punti e poi agisci. Come fare? Col primo esercizio che troverai sul mio libro e che ti aiuterà a evidenziare in modo semplice (e non banale) i punti critici che nella tua azienda ti stanno facendo fare acqua.
Prima però di iniziare questo percorso, ricorda che molto, tutto, dipenderà da te. Sei tu che devi cambiare testa e fare il salto di qualità:
«Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui vivi o assumersi la responsabilità di cambiarle». -Denis Waitley-
…e che la forza del cambiamento sia con te!
Se sei incuriosito da questi temi, ti invito a visitare il mio blog e a seguirmi sui principali social network.
QUI, se vorrai, potrai scaricare gratuitamente le prime 33 pagine del mio libro
Ti auguro uno splendido #futurosemplice !
Rosa Giuffrè
Consulente di Comunicazione e Blogger
Coffee Time domani sarà in compagnia di Rosa Giuffrè, consulente di Comunicazione e Blogger, che ci presenterà un approfondimento tratto dal suo libro “Cambia Testa e potenzia la tua azienda con la Cultura Digitale”.
Un titolo lungo per un libro che tratta un tema davvero importante, che vede ogni giorno centinaia di aziende in preda alla confusione e all’indecisione.
Rosa Giuffrè, nel suo libro ci racconta che prima di pensare a risolvere i problemi, li devi scovare!
L’autrice svelerà alcuni segreti per capire e vedere in modo chiaro i problemi della propria azienda al fine di arrivare ad una piena e soddisfacente risoluzione degli stessi
Coffee Time oggi è in compagnia di Massimo Zanardini, ricercatore presso l’Università degli Studi di Brescia e CSMT Centro Lean Management e Processi Gestionali, con cui qualche tempo fa avevamo trattato di come le aziende manifatturiere italiane (ma non solo), fossero soggette a nuove forze competitive, le quali le spingessero a dover ricercare una maggiore flessibilità rispetto al passato. Una domanda frammentata, suddivisa su una gamma prodotti più ampia (perché personalizzata sulle specifiche esigenze dei singoli clienti), in cui non più solo il prodotto fisico bensì anche i servizi offerti hanno oggi un peso significativo, ed impongono alle aziende manifatturiere a pensare in modo differente. Per fortuna, il passaggio da una manifattura di massa ad una manifattura personalizzata, può essere accompagnato da una serie di tecnologie digitali che stanno maturando ad una velocità senza pari. Tali tecnologie sono disponibili a prezzi accessibili (anche) alle piccole e medie imprese: Stampa 3D, all’Internet delle Cose, alla Realtà Virtuale ed Aumentata (giusto per fare qualche esempio), Nanotecnologie, Intelligenza Artificiale e Social Manufacturing.
Il Laboratorio sul Supply Chain & Service Management dell’Università di Brescia ha terminato da poco una ricerca, partita nel 2014 e terminata ora nel 2015. La ricerca si è focalizzata sul settore manifatturiero, con l’intento di rilevare l’introduzione e/o la presenza di tecnologie in grado di produrre trasformazioni di grande portata in molti processi aziendali, portando le imprese ad operare secondo modalità più vantaggiose ed in grado di fare fronte alle nuove forze e spinte che stanno modificando le regole della manifattura mondiale. Le analisi si sono rivolte quindi all’intero settore manifatturiero, senza vincoli in termini né dimensionali (micro, piccole, medio e grandi imprese sono considerate) né settoriali (partendo dall’industria alimentare, a quella delle metallurgica, della produzione di macchine e impianti speciali, sino all’automotive). Il campione definitivo della ricerca assomma 70 aziende manifatturiere, che rispettano il criterio fondamentale relativo alla presenza di attività produttive e quindi di (almeno) uno stabilimento in Italia.
Che conoscenza ne hanno?
Anche ad un occhio poco allenato, la colorazione grafica proposta dovrebbe far presagire che il grafico presentato non illustri una situazione del tutto positiva. L’analisi evidenzia in modo abbastanza nitido come una quota parte rilevante delle aziende manifatturiere non abbiano ad oggi una conoscenza (anche di base) delle tecnologie indagate. Ciò che appare oltremodo chiaro è che la Stampa 3D è l’unica tecnologia (oggi) riconosciuta come veramente rilevante, mentre le altre tecnologie (a meno, in parte, dell’Internet delle Cose) sono oggi considerate poco impattanti. Anche in questa visione, appare esserci una convergenza tra i risultati raccolti a livello italiano e quelli proposti da altre ricerca in ambito USA (McKinsey ).
Che utilizzo ne fanno?
Anche volendo considerare l’utilizzo di tali tecnologie all’interno delle imprese, la fotografia non migliora. Ad oggi meno del 30% del campione utilizza almeno una delle tecnologie considerate, ed ancora una volta è la stampa 3D a posizionarsi in cima alla classifica del numero di applicazioni. Ciò porta quindi a pensare che anche le tecnologie ritenute più rilevanti, risultano poco impiegate nel concreto.
Quali sono gli elementi inibenti?
Come mai? A cosa si deve il numero molto limitato di aziende che (ad oggi) stanno utilizzando le tecnologie digitali? Le aziende coinvolte nell’indagine segnalano come elemento maggiormente ostativo alla diffusione delle tecnologie, la difficoltà nel reperire risorse competenti su questi temi. Un problema legato quindi (anche) ad un mancato adeguamento dei programmi formativi proposti dal nostro sistema scolastico, che ancora non ha compreso (sino in fondo) l’impatto che queste tecnologie giocheranno nel prossimo futuro nello sviluppo e nella sopravvivenza delle nostre imprese manifatturiere. Economie più lungimiranti hanno già programmato investimenti rilevanti in questa direzione. Gli USA nel 2013 (State of the Union address) hanno dichiarato che la Stampa 3D rappresenta un elemento rivoluzionario per l’industria americana, stanziando 200 milioni di dollari per favorirne la diffusione. In modo del tutto simile, anche la Gran Bretagna ha stanziato circa 200 milioni di sterline per lo sviluppo di queste nuove tecnologie, prevedendo piani di formazione ad hoc per formare tecnici e ricercatori con competenze specifiche. Meno significativi i limiti legati all’onerosità dell’investimento e alla maturità delle tecnologie digitali (già ad oggi potrebbero essere impiegate in ambito produttivo e, si deve considerare, il loro tasso di crescita e maturazione viaggia in modo esponenziale, e non lineare!).
Occorre quindi supportare le aziende nell’analisi dei propri fabbisogni, stimolandole a non fossilizzarsi sugli schemi pre-costituiti del passato (anche se di successo), per guardare oltre, cercando di capire come e in che misura le tecnologie disponibili possano far crescere il proprio business.
La descrizione completa dei risultati avverrà durante l’evento programmato in data 4 giugno, presso il CSMT di Brescia (via branze 45). Per iscriversi gratuitamente: www.csmt.it/eventi/?id=30
Mail: massimo.zanardini@unibs.it
Slideshare: www.slideshare.net/sana_17
Sempre più aziende si stanno affacciando all’ecommerce poiché è il momento giusto. Ciò porta ad una crescita naturale della competizione nazionale e il mercato online diventa sempre più saturo. E dunque: perché non vendere anche all’estero?
Un progetto di internazionalizzazione (seppur apparentemente limitato solo all’online) è spesso sottovalutato e i problemi sono molteplici.
Immaginate all’estero, dove cambiano abitudini, costumi, religioni, culture e tanti altri aspetti!
Il primo problema è rappresentato dalla lingua. I nostri potenziali clienti vogliono parlare la loro lingua madre quando chiamano al servizio clienti, vogliono consultare e leggere un sito web non in inglese. L’azienda deve pertanto strutturarsi con del personale competente, in grado di assistere i clienti anche in orari a noi “scomodi” (a causa del fuso orario, ad esempio).
Un secondo problema da affrontare è legato ai servizi/prodotti offerti e a come questi vengono percepiti o impiegati nella cultura di riferimento. L’olio extravergine d’oliva è un condimento alla base della nostra alimentazione.
All’estero non è così scontato…
In alcune nazioni cambia anche l’uso e la frequenza degli strumenti di comunicazione.
Se in Europa e in USA il motore di ricerca di riferimento è Google, in Russia troviamo Yandex, che è anche portale di informazione, pensato per i russi.
Anche i social network cambiano: Facebook è sostituito da Vkontakte, con logiche simili ma non identiche.
Di Daniele Rutigliano – Aproweb